DISCUSSIONE nel LABORATORIO DEGLI ANNALI DI STORIA




L’età logica, delle lingue d’Europa e degli Studia generalia 

 

Convegno internazionale in Sicilia sul Medioevo. Una occasione di studio e di discussione per scandagliare alcuni caratteri forti dell’«Età di mezzo» dell’Occidente negli orizzonti delle premodernità globali

Il «Laboratorio degli Annali di storia», Ente di studi storici no profit diretto dallo storico Carlo Ruta, ha annunciato il 2° Convegno internazionale Luci sul Medioevo: età logica, età delle lingue d’Europa, età degli Studia generalia, che sarà tenuto a Ragusa nella giornata di sabato 11 marzo 2023, mattina e pomeriggio. Questo Convegno, che avrà carattere multidisciplinare, viene organizzato in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, il Centre National de la Recherche Scientifique francese, l’Università degli Studi di Genova, il Laboratorio di Storia Marittima e Navale dell’Università di Genova e l’Università di Siena.

Attraverso questo momento di studio e di discussione, spiega Carlo Ruta, direttore scientifico degli Annali di storia dei mutamenti globali, «si intende perseguire uno scandaglio aperto che, al di là delle polarizzazioni e delle dicotomie persistenti, luce/buio, progresso/decadenza e simili, solleciti nuovi sguardi, ‘laterali’ ma con visione globale, sugli scenari lunghi e complessi che da una varietà di prospettive hanno precorso la modernità e in maniera sostanziale ne hanno incubato e istituito i caratteri». Osserva ancora lo storico che «le tre prospettive prescelte per il Convegno, le tensioni logico-dialettiche, la formazione di lingue europee e l’organizzazione premoderna degli studi, legate tra loro da organicità, complementarietà e forti interazioni causali, possono essere focalizzate come strutture paradigmatiche nel quadro di esperienze inventive, costruttive e organizzative che a partire da quelle età si sono rivelate, lungo i tragitti della modernità, tra le più vitali e resistenti». E aggiunge: «Obiettivo centrale di questo appuntamento internazionale è di avviare allora una discussione mirata, a misura di problematiche che sul piano dell’indagine storico-antropologica, presentano non pochi campi aperti, e che, nei contesti dello studio delle premodernità possono essere scandagliati oggi con strumenti critici e metodologici molto affinati».

Il convegno si avvarrà di un ampio parterre di studiosi, appartenenti appunto a vari campi disciplinari, di cui è stato già diramato un elenco parziale. Sarà il direttore scientifico Carlo Ruta ad aprire i lavori con una relazione sulla «premodernità lunga dell’Occidente come età logica, delle lingue e degli Studia generalia», con l’enunciazione di tesi che costituiranno la base della discussione. Si snoderà quindi un dibattito articolato che vedrà partecipi storici, antropologi, filologi, linguisti, epistemologi e filosofi italiani ed esteri.

Tra i relatori: la linguista Graziella Acquaviva, lo storico moderno Emiliano Beri, lo storico della letteratura francese Luca Bevilacqua, il filologo e storico del mondo antico Carlo Giovanni Cereti, lo storico del Diritto medievale Alessandro Dani, l’antropologa culturale Annalisa Di Nuzzo, lo storico del Cristianesimo Michael H. Feldkamp, lo storico moderno Giuseppe Foglio, l’archeologo e medievista Emanuele E. Intagliata, il medievista Marco Leonardi, l’archeologo classico e storico dell’Arte Clemente Marconi, lo storico della Filosofia medievale Concetto Martello, la linguista e storica delle letterature Giovanna Minardi, la storica medievista Sandra Origone, la storica della letteratura cinese Giuseppa Tamburello, l’epistemologo e storico delle scienze Giuseppe Varnier.





L’Europa necessaria e il nuovo equilibrio mondiale 

Riflessione sul seminario di Carlo Ruta su L'Europa va alla guerra e il radicalismo etnocentrico, tenuto il 17 ottobre 2022

di Giuseppe Foglio

 

Il ragionamento di Carlo Ruta, traboccante di spunti di riflessione ed approfondimento su numerosi temi di storia e cultura, a mio avviso, è unificato dall’intenzione di instaurare un nesso tra storia e presente attraverso quello che con la tradizione delle Annales, chiamerei metodo mediterraneo. Vale a dire quella forza di trasformazione esercitata sul metodo storiografico dagli studi sul Mediterraneo e, aggiungerei, sull’Europa. Com’è noto, gli studi sui mutamenti di struttura in Europa e nel Mediterraneo nel Medioevo e nell’Età moderna di Braudel e, in generale, degli storici della scuola delle Annales, o ad essa ispirati, hanno richiesto un rinnovamento del metodo storiografico che ponesse al centro i processi di lunga durata durante i quali movimenti di popolazione, scambi commerciali e di saperi, o guerre, producono il cambiamento silenzioso che sfocia ibridazione culturali e sintesi antropologiche non sempre consapevoli. Come sottolinea Ruta, oggi tutto questo è un patrimonio consolidato per gli studi storici di ogni settore. Tale metodologia è in grado di evidenziare una storia sommersa e, direi, contrapporre la storicità sommersa del collettivo anonimo all’histoire diplomatique che era dominante nella storiografia tanto quanto era dominante l’Europa nel mondo fino all’Ottocento, se non anche al Novecento. Ed infatti il metodo evenemenziale era dedicato alla storia degli stati europei, dei grandi uomini, dei grandi eventi. Ma, oggi, che il processo di unificazione europea – di per sé in una crisi annosa, per non dire congenita e permanente – si confronta con l’emergere di nuove potenze mondiali e, in particolare, di un ritorno dell’Asia al centro della storia universale, quell’approccio è più che mai attuale. Di più, esso è in grado di rendere visibili e comprensibili dinamiche che difficilmente possono essere focalizzate con il metodo diplomatico, proponendosi per una riforma della metodologia storiografica corrispondente al mutamento di rapporti egemonici tra Occidente ed Oriente che si delinea nella storia mondiale. Come non rivalutare oggi la domanda posta dallo strutturalismo a conclusione della storia medievale e della storia moderna: perché la Cina non ha invaso il Mediterraneo e l’Europa?

Se la parabola della storia universale euro- e occidento-centrica risulta dominata da quell’interrogativo, oggi come non ricostruire la storia e, soprattutto il futuro, della globalizzazione partendo dall’assunto, antihegeliano, che l’Oriente è, o va a ridiventare, il centro del mondo?

D’altra parte, va notato anche che il processo in corso è costellato e punteggiato da fenomeni, eventi ed anche singoli fatti storici dal chiaro sapore ottocentesco, come le polemiche territoriali, economiche o diplomatico-culturali alimentate da governi quali per esempio quello cinese, o russo, ma anche indiano e turco. Alla luce di questi fenomeni, tutt’al contrario di prima, si dovrebbe di nuovo por mano alla cassetta degli attrezzi politico-diplomatica, o meglio strategica, che rappresenta il patrimonio privilegiato della grande storia – e storiografia – occidentale per comprendere l’importanza delle piccole guerre nella ricomposizione del nuovo ordine di potenza mondiale. Quale? Quello di un’egemonia cinese, o asiatica? Oppure, quello di un nuovo equilibrio, questa volta mondiale – e tra superpotenze, dopo quelli, andando a ritroso nel passato moderno e medievale, europeo (tra potenze nazionali) e italiano (tra potenze regionali)?

Anche in questo caso, la storia mostra tutte le sue potenzialità ricostruttive del passato e la sua insostituibile capacità di illustrare le vie del futuro attraverso la lettura del presente.

Ed è proprio la questione del presente a porsi in rilievo nel quadro di queste brevi annotazioni. In verità, sono molte le direzioni che il discorso potrebbe intraprendere, ma vorrei qui suggerire la seguente, apparentemente incoerente, marginale, e forse provocatoria: quale posto occupa oggi la storia nel sistema di istruzione europeo e italiano? È l’istruzione ancora un pilastro della cultura e della cittadinanza in Italia ed in Europa?

Bisogna subito dire che ci troviamo di fronte ad una situazione schizofrenica, o più banalmente ipocrita: da un lato le competenze civiche e sociali vengono enfatizzate in ogni discorso programmatico, soprattutto in sede politica; dall’altro, negli ultimi decenni, si è verificata una sistematica riduzione delle ore di insegnamento della storia ed un continuo incremento di attività da svolgersi con metodologie innovative (Clil, Nuova educazione civica) che ne hanno modificato l’identità disciplinare e, di conseguenza, il contributo al profilo formativo dei giovani cittadini. Sicuramente, ciò ha comportato anche effetti positivi proprio sulla dinamica interdisciplinare ed attualizzante della trattazione di tematiche del passato. Ma è altrettanto urgente una riflessione sugli spazi, i tempi e i modi dell’insegnamento della storia nella scuola europea del XXI secolo. Farne sempre più il luogo di progetti con obiettivi formativi divergenti, o trasversali, rischia di far perdere completamente identità ad una disciplina, che al contrario mantiene intatto il suo valore didattico di tipo ricostruttivo e riflessivo, a prescindere da ogni fondata critica all’idealismo e allo storicismo dominanti nel passato.

In ciò, la storia resterebbe centrale anche rispetto al progetto di formazione permanente del cittadino europeo proposta dal Consiglio europeo nella Raccomandazione del 2018 sull’apprendimento permanente. In quel testo, infatti, si declinano le competenze come atteggiamenti critici verso la realtà contemporanea che consentano al cittadino di aggiornare continuamente i suoi paradigmi interpretativi, adattivi e di giudizio sulla realtà stessa. Tuttavia, in quel testo non c’è menzione della storia come tale, o della filosofia come tale. È questo un tema di discussione? È un problema culturale del nostro presente? E di quale ordine di grandezza?

Può la società europea procedere, come dire, alla cieca nel pericoloso contesto politico mondiale e, alla stessa maniera, confondere la formazione della coscienza del cittadino europeo con la diffusione di strumenti cognitivi e affettivi per la gestione del cambiamento professionale e geografico del lavoratore del futuro?

A mio avviso è di importanza fondamentale aprire una discussione pubblica su queste tematiche, che, per sintesi, potrei definire come elementi di una storia del presente. Tuttavia, la ricerca delle forme e dei modi per sviluppare tali progetti trascende i limiti del presente scritto e, pertanto, va rinviata ad una sede più ampia ed approfondita di dibattito.




La Carta transnazionale del diritto alla storia

e dei diritti della storia, redatta dallo storico Carlo Ruta

e firmata da circa 500 studiosi italiani ed esteri e da circa 

duecento organizzazioni e attivisti dell'impegno civile  

 

Gli storici, gli studiosi sociali e di altri campi disciplinari, le istituzioni scientifiche
e gli enti di ricerca firmatari di questa Carta 
prendono atto che:

 

a) nei riguardi dei saperi umani e sociali, e degli studi storici in particolare, sempre più ricorrono su scala globale atteggiamenti di disistima, fenomeni di rimozione e di «desertificazione», condizionamenti e disincentivi alla ricerca che possono arrecare pregiudizi ai percorsi civili, materiali e intellettuali delle società;

 

b) da numerose sedi viene suggerito un declassamento della storia nei campi dell’istruzione e nei percorsi educativi in generale, in favore di materie di studio e di saperi ritenuti più utili socialmente perché percepiti come più omologabili agli attuali processi tecnologici;

 

c) per cause complesse, materiali e culturali, emergono contestualmente manifestazioni di rifiuto e nichilismi che possono evocare, al di là delle distanze temporali e delle differenze di contesto, condotte e climi sociali che hanno concorso alle destabilizzazioni politiche e civili del Novecento;

 

d) la storia, in tutte le sue connotazioni e correlazioni disciplinari, rischia di diventare, per tali motivi, una vittima sacrificale di questa contemporaneità, che sempre più si espone a perdite significative di memoria, alla incomprensione del presente e a vuoti di prefigurazione del tempo che verrà.

 

Preso atto di tutto ciò,

i firmatari della Carta affermano che:

 

1. la storia costituisce l’orizzonte temporale entro cui si svolge la vita sociale degli esseri umani, materiale e culturale. La conoscenza storica, al cospetto delle complessità del mondo attuale, assume perciò un rilievo fondamentale nei percorsi delle comunità, nel comporsi del senso comune e dei processi ideativi, nella formazione dell’immagine del mondo, nell’elaborazione dei modelli di vita, sociali e individuali, e nel contatto con le cose;

 

2. la conoscenza storica non aiuta a predire in modo deterministico quel che avverrà, ma proprio perché compresa costituzionalmente nel succedersi e nel concatenarsi dei fatti umani costituisce una risorsa istruttiva e, soprattutto, orientativa;

 

3. l’accesso alla storia, per tutto ciò, non può essere un privilegio di pochi. In tutte le sue declinazioni e correlazioni disciplinari, la conoscenza storica costituisce un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano, un bene comune a tutti disponibile senza distinzione di ceto, di genere, di etnia e di status intellettuale;

 

4. I governi dei Paesi hanno l’onere di tutelare, attraverso le proprie articolazioni, il diritto alla conoscenza storica in tutte le sue forme. Hanno l’onere di rimuovere quindi gli ostacoli che ne impediscono o ne rendono difficoltosa la fruizione, attraverso un impiego organico e flessibile di risorse: materiali, intellettuali, didattiche, scientifiche e tecnologiche, in una prospettiva aperta, dialogante e di lunga durata;

 

5. Nel contesto degli ordinamenti costituzionali e in conformità con la Dichiarazione universale dei diritti umani adottata dall’ONU e con le deliberazioni di altri organismi sovranazionali operanti sul terreno delle libertà fondamentali e dei diritti civili, va garantito il libero esercizio della ricerca storica e delle altre discipline umane e sociali, senza condizionamenti indebiti e limitazioni mortificanti. È inoltre essenziale che questo diritto trovi completamento in un quadro di comunicazione e di condizioni che rendano gli esiti delle ricerche trasmissibili e fruibili socialmente;

 

6. Gli organismi sovranazionali che esercitano alte funzioni di garanzia e di controllo in materia di diritti umani e di salvaguardia delle risorse culturali hanno l’onere di esercitare la loro autorità istituzionale e le loro facoltà deliberative in difesa del diritto alla storia e dei diritti della storia, attraverso risoluzioni specifiche, protocolli aggiuntivi, supporti organizzativi e interventi diretti nei casi in cui tali diritti vengano violati;

 

7. La storia costituisce un bene comune e una risorsa fondamentale anche per le generazioni future, i cui diritti, per gli effetti lunghi che possono derivare dagli atti compiuti in questo snodo epocale, è opportuno che siano riconosciuti, nel quadro ancora delle facoltà deliberative e delle responsabilità che ricadono sugli organi di governo nazionali e sugli organismi sovranazionali. Necessitano allora interventi con visione strategica, per preservare la conoscenza storica laddove questa tenda a rarefarsi o addirittura a desertificarsi, come avviene oggi a vari livelli: dagli scenari di crisi civile e bellica, che arrivano a determinare azzeramenti di facies e delle stratificazioni epocali, agli ambiti della comunicazione telematica, in cui si registrano fenomeni interruttivi importanti, con quantità immense di dati che si perdono, soprattutto a causa dei repentini mutamenti tecnologici e per il dilagare degli illeciti digitali;

 

8. La conoscenza storica, come ogni altra forma di sapere, si esprime attraverso l’uso della lingua, scritta e parlata, e di una pluralità di mezzi espressivi e supporti, come la produzione di immagini, fisse e in movimento, la sonorità, la gestualità, la dimensione tattile e i sistemi digitali e telematici. A questo insieme complesso e mobile di linguaggi e sistemi, in cui nessun elemento esclude l’altro, va riconosciuta la dignità di risorsa nodale dell’umanità, disponibile, trasmissibile e arricchente;

 

9. La comunicazione telematica, che dagli ultimi decenni del Novecento ha conosciuto progressi esponenziali, costituisce ormai per la storia e per gli altri saperi umani e sociali una risorsa essenziale ai fini della formazione scientifica, della ricerca e della fruizione pubblica delle conoscenze. Anche dalla prospettiva del diritto alla storia e dei diritti della storia si avverte perciò la necessità di interventi organici, nelle sedi nazionali e sovranazionali, che contrastino i vuoti normativi, attraverso l’emanazione di leggi di alto profilo giuridico, aperte e rispettose delle libertà fondamentali, dei diritti civili e della dignità umana.

 

10. Per tutto ciò, i firmatari della Carta fanno appello: ai governi degli Stati, all’Organizzazione delle Nazioni Unite, agli organi direttivi dell’UNESCO, agli organi direttivi dell’Unione Europea, All’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), agli organi direttivi della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi, all’Organizzazione dell’Unione Africana, agli organi direttivi della Lega Araba, all’Organizzazione degli Stati ibero-americani, alla Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe e agli altri organismi sovranazionali preposti alla tutela dei diritti umani e alla salvaguardia delle risorse storico-culturali, perché assumano impegni decisivi nelle direzioni indicate. 

Ragusa (Italia), 3 gennaio 2022



14 ottobre 2020

Perché la storia può migliorare il mondo che verrà

Il manifesto di Carlo Ruta accende il dibattito nel mondo scientifico 

e culturale europeo. Intervista allo storico 

A cura di Flora Bonaccorso

 

Nella prospettiva della memoria del passato come valore che si aggiunge al presente, la storiografia riveste un ruolo fondamentale. La sua proposta di un manifesto per l’innovazione della storia quale contributo può offrire in questo circolo virtuoso? 

In questa fase della contemporaneità, la storia non vive momenti facili. Viene a trovarsi troppo spesso sotto attacco, come conoscenza «inutile», e tale disistima rischia di lasciare il segno. Nulla di nuovo, in realtà. Questi radicalismi sono correnti nei momenti di crisi, quando la conoscenza del passato viene avvertita come un pericolo. È quel che è avvenuto, ad esempio, tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento, quando un certo rigetto della storia ha sedimentato culture fieramente nichilistiche, che hanno contribuito infine a generare catastrofi. Già solo per questo è importante che si prendano iniziative, che si apra una fase di riflessione diffusa, che si cerchi di aprire varchi di confronto interdisciplinare, di livello strategico. Il manifesto nasce insomma da esigenze oggettive. Si vivono tempi di crisi, il mondo di oggi è in subbuglio, lo vediamo tutti i giorni, i circoli viziosi minacciano di prevalere su quelli virtuosi. È importante allora che la ricerca storica si apra, faccia quel che le è dovuto, mettendo in campo il meglio delle proprie virtualità, intercettando in primo luogo i bisogni di conoscenza che provengono dagli ambiti sociali più maturi e responsabili.  

Su questo sfondo, qual è il ruolo che lei attribuisce alla storia nel mondo attuale?

La storia è diverse cose. Prima di essere la conoscenza organizzata delle relazioni causali nei fatti umani, essa è la concatenazione stessa dei fatti, una struttura temporale e, direi, la condizione esistenziale di ogni individuo umano, come lo sono la natura e la società materiale in cui si vive, ma con delle diversità. Immaginiamola come una «casa», oppure come un orizzonte in profondità nel quale si vive immersi, che lascia infine un’anamnesi, incisa come in una «scatola nera». Non esiste persona che non possieda una propria nozione, per quanto semplificata, del passato, suo, della sua famiglia, della sua città, degli ambienti in cui ha vissuto. E questo è in fondo il punto di partenza, il sostrato, il grumo originario della conoscenza storica. La ricerca storica serve a ricordare meglio, ad allargare, a problematizzare e a rendere più utilizzabile il contenuto di tale «scatola nera». Essa non è antiquaria, né il culto del passato. Non si tratta di un invito prudente alla conservazione, come lo era ad esempio il mos majorum invocato in ambienti aristocratici della Roma repubblicana, cioè l’assimilazione dei costumi degli antenati da cui lasciarsi guidare. Nulla di tutto ciò. La storia, come conoscenza, può essere concepita ed esperita come ricerca del punto di equilibrio e di stabilità, per quanto di volta in volta provvisorio, tra quel che il passato suggerisce di utile e di progressivo in termini di consapevolezza e la necessità di scegliere, prefigurare, rischiare e portarsi oltre. Nei disagi che opprimono il presente, la storia, in sinergia con altre scienze, in una chiave anche transdisciplinare, può giocare allora una parte importante, utile a restituire senso alle cose. La conoscenza storica può suggerire modelli di vita, può educare alla complessità, raffinare il senso civico. Ma, si badi, essa può anche depistare, mistificare, traviare, confondere. Ed è qui che le cose si complicano. 

Quale allora la via maestra, oggi? 

Ferma restando la giusta attenzione che meritano le esperienze più feconde del Novecento, credo che alla ricerca storica serva oggi, alla luce di quel che il mondo è realmente, un impegno rinnovato a mettersi e a mettere in discussione, che porti ad una ridefinizione dei compiti, in una logica di aperture, dialoghi e orizzontalità a tutto campo. Si tratta di scandagliare territori off limits, di sporcarsi le mani quando occorre, di mobilitare il più possibile il «punto di vista», di lanciare sulle cose un pensiero «obliquo» e progressivo. E tuttavia ciò potrebbe non bastare, perché bisogna essere disposti a cedere qualcosa, a sacrificare, in maniera lungimirante, anche posizioni e privilegi. Oltre che i bacini della storia andrebbero estesi infatti, nell’accezione più piena, i laboratori e le fucine della storia. Non si può fare con pienezza «storia globale» se poi il punto di vista egemone rimane di fatto quello eurocentrico e occidentalista, dal momento che la ricerca storica che ha veramente peso egemonico insiste ad essere localizzata in un circuito ristretto di ambienti euro-atlantici. Mettersi in discussione vuol dire allora porsi all’altezza dei problemi.  

In che modo?  

Questa egemonia viene ovviamente da molto lontano e ha cause complesse, ma qui è il caso di soffermarci sul dato di oggi, che, davvero, non è confortante. I filtri e i piani inclinati che ancora persistono nella ricerca storica costituiscono a ben vedere un’ingessatura che, in modo anche autolesionistico, alla fine non aiuta a muoversi con sicurezza e a progredire come si vorrebbe. Urgono allora, oltre che cambi di passo, anche rinunce e mutamenti di prospettiva. Mettersi in discussione vuol dire, nello specifico, ricerca di una orizzontalità attiva, che faccia bene a tutti e che permetta alle società di conoscere meglio il mondo. Proviamo a chiederci, ad esempio, che peso reale abbiano oggi, nella ricerca «globale», le storiografie sudamericane e mesoamericane, quelle centroasiatiche, quelle centroafricane e neozelandesi, quelle scandinave e dei nativi americani. A conti fatti, ben poco. La storia, per essere globale, nel senso più dinamico del termine, è invece necessario che diventi storia di tutti, polimorfica e policentrica, sul piano organizzativo e logistico oltre che su quello dei contenuti. Mettersi in discussione vuol dire in realtà rinunciare sì a qualcosa, mettere in gioco il punto di vista che sentiamo come nostro, superiore, trascendente o perfino universale, ma per attivare infine, rivalutando nella storia la dimensione dell’ascolto e del dialogo, processi di crescita e nuove consapevolezze. Non si tratta allora di un cedimento o di un impoverimento ma, appunto, di un arricchimento lungimirante e strategico. 

Quali benefici possono derivare da una storia di questo livello? 

Una storia che vada in questa direzione può avere effetti importanti. Può aiutare, come si diceva, le società ad orientarsi, a rifuggire dai nichilismi e dalle chiusure iper-identitarie che infestano l’epoca. Al cospetto di criticità che arrivano a minacciare anche i processi cognitivi e logici, una storia all’altezza dei problemi, con il contributo di altri saperi, può creare argini possenti. Sul piano etnico, culturale e sociale, essa può sostenere processi di pacificazione, di coesione, di erosione progressiva del pregiudizio: un vizio umano, questo, ancora poco identificato che, da tempi molto lontani, porta a concepire l’altro, il «differente», generato dalla destrutturazione del simile, come ladro di risorse, quindi come ostacolo da abbattere. Ladri di risorse sono diventati di volta in volta, fino ai nostri giorni, il cananeo, il barbaro, il cristiano, l’ebreo, il fariseo, il filisteo, il musulmano, il protestante, il valdese, l’albigese, il selvaggio, lo straniero, il meticcio, lo zingaro, l’omosessuale, la «strega» e così via. 

Come ripensare allora la storia? 

Senza che venga meno il suo carattere di scienza delle complessità sociali e delle cause, al di là quindi di ogni interpretazione finalistica, la storia può occupare un posto importante nel ridisegno di una possibile costituzione del vivere. Dialogando con la biologia, essa può sostenere un recupero forte della naturalità, dell’organico, a detrimento dei grovigli tecnologici e del sintetico che hanno creato danni anche irreparabili agli ambienti e alla vita, fino a compromettere risorse fondamentali come l’aria e le acque. La storia, prodotta, narrata e bene assimilata dalle società civili, può aiutare a rallentare le frenesie del tempo iper-tecnologico e ristabilire le misure del tempo naturale e del lavoro manuale. Può ridare slancio, ancora, alla polis, alla città aperta, può rafforzare quindi le difese della democrazia e delle libertà da tutto ciò che può minacciarle. Può sollecitare, ancora, le società ad autoanalisi profonde, che le aiutino a disporre con maggiore razionalità e misura delle loro risorse. 

Un’ultima domanda: cosa è avvenuto dopo l’uscita del suo Manifesto?  

Come si può ben comprendere si è trattato di una scommessa, che sta andando a buon fine. E per la verità non ne sono molto sorpreso, perché i problemi che si è cercato di porre in luce, allo stato delle cose, non sono sottovalutabili. Non è stata una decisione presa dalla sera alla mattina ma frutto di una riflessione lunga, che mi ha accompagnato in questi anni di studio, su una varietà di fronti. Riflessione che è stata facilitata peraltro da una lunga serie di opportunità, di contatto e di confronto che ho avuto con una pluralità di mondi, sociali, culturali e generazionali. Adesso il dibattito è aperto. Da tutta Europa stanno arrivando adesioni e contributi scritti, che arricchiscono il documento e che usciranno tra alcune settimane a stampa. È il secondo gradino e ne seguiranno altri.



10 settembre 2020

La storia cambi passo

Proposta di un manifesto per l’innovazione di una scienza 

di Carlo Ruta (storico)

 

 

Contemporaneità e storia 

Di recente si sono avute numerose prese di posizione a sostegno della storia come imprescindibile materia di studio e apprendimento, in risposta ad ambienti che ritengono si tratti di una conoscenza non necessaria. Ma in questa fase, molto difficile, è opportuno che si provi ad andare oltre, ponendo al centro della discussione i caratteri, i modi d’essere e le pluralità della disciplina, i suoi metodi e i suoi fondamenti scientifici, perciò anche i suoi confini, perché meglio essa possa essere identificata e raccordata con i bisogni delle società civili. Il problema non è irrilevante, perché la percezione e la rappresentazione delle cose, del presente e del passato, sempre più oggi si presentano problematiche.

La storia, come disciplina che annota e spiega i fatti umani, elaborandone i nessi e le complessità causali, lungo il Novecento ha registrato avanzamenti significativi, in contesti anche tempestosi. Mentre l’Europa viveva nella prima metà del secolo le sue vicissitudini più tragiche, in alcuni ambienti si lavorava con slancio per ridefinire gli orizzonti disciplinari, per affinare i metodi d’indagine e per allargare i campi di studio, attraverso prestiti e scambi fecondi con altri saperi specialistici: in particolare con scienze sociali come l’antropologia, la sociologia, l’etnologia, la psicologia, la geografia e l’economia. Il caso più paradigmatico è di certo quello delle Annales, che dal 1929, sotto la direzione di Marc Bloch e Lucien Febvre, hanno impresso, dalla Francia, una trasformazione profonda alla ricerca, da cui hanno tratto motivi, con esiti spesso brillanti, diverse generazioni di studiosi. Il mondo è entrato poi in quella che Norberto Bobbio ha definito l’età dei diritti, travagliata tuttavia dal confronto geopolitico tra liberaldemocrazie e il mondo socialista, da polarizzazioni ideologiche e rinnovate tensioni sociali, percorsa infine da fenomenologie non meno condizionanti: dai soprassalti globali del neoliberismo agli exploit della telematica. Ne è derivato allora, ed è storia degli ultimi decenni, un quadro complessivo ondivago, di luci e ombre, che hanno avuto e continuano ad avere riflessi sostanziali, diretti e indiretti, sul mondo degli studi.

Nel tracciato delle esperienze del secondo Novecento, entro cui si collocano ricerche di spessore paradigmatico come quelle di Fernand Braudel e Philippe Ariès, si sono intensificati gli scambi interdisciplinari, per quanto forti siano rimasti i richiami dello specialismo più formale e caparbio. Il dibattito, resosi maggiormente fluido, ha prodotto una storia arricchita, per metodologie e contenuti, che è riuscita a investigare con cura speciale il terreno delle culture, e delle mentalità in particolare. Lo scandaglio delle epoche umane non è immune tuttavia, per la posizione che occupa, da influenze in grado di pregiudicarne anche i risultati, l’autonomia e il rigore metodologico. E tanto più i rischi sono manifesti in questi tempi, a causa di un clima che, per l’aumento delle disuguaglianze, la precarietà degli equilibri internazionali e la crescita del fenomeno immigratorio dalle aree disagiate a quelle più ricche, a livello globale va deteriorandosi, sui piani anche delle risorse civili, dei diritti e, per forza di cose, delle condotte razionali.

Mentre si aggiornano in maniera più o meno dichiarata i punti di vista eurocentrici e le sicumere universaliste di un «primo mondo» che non smette di riconoscere se stesso come il presidio per antonomasia dei «valori ultimi», si alimentano infatti, in numerose parti del Globo, le chiusure iper-identitarie, il rifiuto quindi delle multiculturalità e il pregiudizio etnico. Si tratta, a ben vedere, di fenomeni implosivi e dissociativi, che si generano nel vivo delle società e delle culture in maniera quasi inerziale, anche in paesi che lungo il Novecento hanno elaborato in maniera matura e relativamente aperta il «trauma» della decolonizzazione. Con l’ausilio di ideologie su misura, avanzano in definitiva logiche di risentimento e paura, che portano ancora a concepire il portatore di differenze come antagonista e, si potrebbe dire, come «ladro di risorse». Nell’ordine reale delle cose, sembrano finire fuori campo allora le prefigurazioni più feconde del secondo Novecento, come i paradigmi della coesione internazionale pensati da Hans Kelsen, i tracciati della «società aperta» di Karl Popper e, più ancora forse, i moniti egualitari delle antropologie più brillanti, come quella del Claude Lévi-Strauss di Razze e storia.

Situazioni di crisi si manifestano, contestualmente, nel sistema delle rappresentanze e in altri gangli delle democrazie liberali, da cui tendono ad emergere nuove ibridazioni, difficili da interpretare. Il mondo della comunicazione, sempre più condizionato dal digitale e dai social, produce inoltre fenomenologie di vario segno, con effetti ancora contraddittori, di orizzontalità attive da un lato, che nei primi anni di questo secolo hanno fatto immaginare una crescita delle buone pratiche di democrazia, e di condotte manipolatorie dall’altro, che rischiano di disorientare le opinioni pubbliche, ostacolandone il travaglio critico, con l’esito anche di rendere più difficili i percorsi conoscitivi, attraverso la fabbricazione del falso. In questo orizzonte problematico, che si alimenta di radicalismi di ogni livello, la ricerca storica è investita allora da responsabilità importanti, con ricadute possibili anche di ordine civile.  

Scenari che mutano 

Chi opera oggi nel campo delle scienze sociali, da qualsiasi prospettiva, storica, sociologica, antropologica e così via, ha davanti a sé strade diverse. Può arroccarsi nello specialismo isolazionistico o aprirsi utilmente alle sollecitazioni, può alzare la guardia o rilanciare, autolimitarsi o progredire, oscurare un paesaggio umano o illuminarlo. Può indugiare in definitiva sulla difensiva o porsi all’altezza delle difficoltà che travagliano i paesi, operando, se lo si vuole, in maniera emblematica. Può essere ancora istruttivo, al riguardo, il dato del primo Novecento, quando la Nouvelle histoire si ritrovò a coesistere con le implosioni nichilistiche e belliciste del tempo, bilanciandole in qualche misura, oggettivamente, come un utile anticorpo. Ciò non avveniva attraverso una dialettica frontale, più o meno accentuata in senso ideologico, ma, soprattutto, per mezzo di una erogazione in profondità, sfaccettata e innovatrice, in grado, già con il solo esserci, di puntellare in quell’Europa crepuscolare il senso delle cose e di porre la conoscenza storica come presidio della razionalità. Si trattava in fondo di una ricerca schiva, che in quei frangenti maturava con discrezione in alcuni circoli universitari della Francia, ma vigorosamente attiva e feconda.

Lo studioso di questo tempo è importante che faccia i conti con quelle esperienze conoscitive e quel contatto con le cose ma deve confrontarsi con un presente che propone scenari e prospettive di ricerca differenti. Tra le scienze sociali, la storia è forse quella che oggi più viene sottoposta a critiche demolitrici, non soltanto dalla prospettiva dell’utilità didattica. Secondo i nuovi detrattori della disciplina, le vicende umane sono troppo eterogenee, vaghe e divergenti per essere trattate e spiegate con metodi di ricerca credibili. Ed è ben chiaro che in questo modo, agli sforzi di studio sostenuti nell’ultimo secolo, e ai traguardi raggiunti, si finisce per opporre, oltre che le cortine dello scientismo, il nichilismo, il vuoto unidimensionale, ideologico, che tende di fatto a delegittimare saperi stratificati e a sollecitare, dal versante degli studi, le implosioni del presente. Riaffiora, in sostanza, con nuove modalità, il timore della storia, proprio quando questa disciplina per una serie di circostanze, esterne e interne, appare nelle condizioni di accelerare il passo e produrre nuove rotture paradigmatiche. Oggi essa può disporre infatti di risorse inedite, offerte anche dai progressi impetuosi di alcuni campi tecnologici e delle scienze naturali, che stanno rivoluzionando, tra l’altro, discipline contigue come quelle archeologiche.

Nel panorama delle scienze, l’archeologia si colloca in una sorta di frontiera, che per tanti aspetti ha forgiato i suoi modi operativi e il suo carattere, anch’esso pluralistico. In alcuni contesti, come quello della New archeology, nota altrimenti come archeologia processuale, la disciplina è riconosciuta come contigua alle scienze naturali. La relazione si fa oggettiva del resto e diventa organica con l’archeometria, concentrata soprattutto sull’analisi di laboratorio, chimica, fisica e biologica dei reperti e degli ambienti naturali di provenienza. Il quadro si presenta però più ampio e sfaccettato. La ricerca archeologica, anche dalla prospettiva paletnologica, che indaga le età preistoriche, ha registrato dal secondo dopoguerra significativi momenti di crescita, derivanti appunto dall’innovazione tecnologica. I più recenti dispositivi della subacquea, le telecamere lidar, i sonar, i magnetometri e i radar per il telerilevamento, le foto satellitari, le tecniche 3D, le tomografie computerizzate e i nuovi ritrovati per la datazione dei reperti stanno mutando infatti radicalmente l’orizzonte degli studi. Se utilizzati con criterio e organicità, questi progressi possono incidere allora in maniera significativa sull’indagine pluridirezionale delle epoche umane. In sostanza, più utilmente che in passato, l’archeologia è in grado di occupare una posizione mediana, sul piano operazionale almeno, tra la disciplina storica e le scienze naturali. Essa rimane tuttavia una scienza sociale, e su questo terreno si trova ad articolare i suoi contatti più impegnativi con la storia, mentre quest’ultima è nelle condizioni e ha l’opportunità, appunto, di rimescolare le carte e di riconsiderare, tra l’altro, il problema delle fonti, che solo in parte nell’età delle semiotiche possono risolversi nei tragitti della scrittura, dai primi pittogrammi all’alfabeto. 

Superando il confine 

Come scienza sociale, la storia non ha il compito di giudicare, assolvere o condannare. Essa ha l’onere di restituire senso ai fatti umani, illuminandoli, incalzandoli, esplicitandoli, attraverso il documento e il manufatto, l’oggettività naturale e le immaterialità resistenti, le culture e il loro correlarsi dialettico. Storici di grande acutezza, come Karl Lamprecht e Henri Pirenne, molto stimati dagli annalisti, soprattutto di prima generazione, adoperavano un concetto «compromettente» per definire un loro approccio alla ricerca. Essi parlavano di una storia totale, per rimarcare i modi d’essere di un’attività scientifica indiscreta, attiva su vasti orizzonti e aperta ad ogni contaminazione utile. Tutto questo, mentre evoca una stagione di scommesse, riesce a fornire allora spunti produttivi al presente. Per ridare senso alle cose e aiutare così le società a rendersi conto e a riorientarsi è necessario, evidentemente, liberare il campo da scorie, chiusure, polarizzazioni vacue e schemi ideologici in grado di deprimere l’esercizio della ricerca. Ed è quel che le storiografie più avvertite, da varie posizioni, si propongono di fare da decenni, in sintonia con gli ambiti più maturi di altre scienze sociali. Il Novecento, in questo senso, ha costituito una grande fucina, ha forgiato strumenti e incubato risorse conoscitive. Ma le fratture di questa tarda modernità sollecitano ad accelerare e cambiare passo. Ciò potrebbe essere allora la scommessa di oggi.

La ricerca del secolo scorso, impugnando il «primato» della storia politico-militare e, per dirla con gli annalisti, della narrazione événementielle, concentrata di massima su attori di rango, eventi memorabili e rigide scansioni cronologiche, ha scoperto la pluralità dei campi, inoltrandosi con impeto in territori prima trascurati, dall’economico al sacrale, dalla vita quotidiana alle mentalità, dalle tecniche al lavoro, dai sentimenti alle differenze di genere. L’ultimo Novecento ha espresso poi altri modelli, come quello di una storia globale che, solo in minima parte sul tracciato braudeliano della longue durée, si è snodata dagli anni settanta con esiti anche fecondi, che hanno portato, tra l’altro, ad una ridiscussione ad ampio raggio dei modelli eurocentrici ed occidentalisti. Con uno sguardo orientato alle fenomenologie economico-finanziarie del mondo contemporaneo, sono stati riconsiderati infatti i rapporti tra il globale e il territoriale, il Nord e il Sud, il Ponente e il Levante, che nelle opere di Immanuel Wallerstein, ad esempio, vengono ricomposti nel paradigma unificante del sistema-mondo. Ma la storia può aspirare a portarsi lungo regioni, fisiche e immateriali, più impervie e sfumate, dove diventa inevitabile il confronto con tutto ciò che, dotato di un flusso, di un moto intrinseco, sfugge a rappresentazioni univoche e cristallizzate. Può essere conferito allora altro peso a elementi di «disturbo» come il trasversale, l’ambiguo, il tortuoso, l’instabile, l’imprevedibile, il contraddittorio, l’indeterminato e l’inopportuno, che pure hanno esercitato influenze decisive sulla formazione delle epoche, sui processi di civilizzazione e perfino sulle articolazioni della razionalità umana.

In un orizzonte epocale come quello odierno, che rivendica in maniera compulsiva il massimo di agiatezza e di comfort, e che mostra tuttavia segni di affaticamento, la storia può aiutare a restituire delle logiche e un senso a quel che viene percepito come estraneo e fuori campo. Può aiutare inoltre a frequentare in maniera empatica le complessità delle cose e a orizzontarsi meglio lungo le tre prospettive che reggono, avvolgendola, l’esperienza umana: il contatto con la natura, il confronto con il mondo sociale e il rapporto con la storia, che, come dimensione del passato, in ogni persona è costume, memoria, lingua, background culturale, senso e misura del tempo, in definitiva, percezione orientata del . Se la mission più conseguente e alta della ricerca storica è allora quella di contribuire ai processi di autoanalisi delle società, attraverso prese d’atto, scoperte e atti di coscienza, si può immaginare un ripensamento emblematico e consapevole, un «patto» tra la ricerca storica e le società umane in cui siano soddisfatte determinate condizioni.

Non sempre, a ben vedere, la storia si ritrova al servizio del vincitore, come vuole un motto corrente. Essa può sostenere un ceto resistente, come si avverte, ad esempio, nella narrazione moralistica di Publio Cornelio Tacito. A volte si trova a sostenere le ragioni di un mutamento possibile, di un progresso o di un regresso, retto da attori più o meno presenti o mimetici. È naturale allora che lo studioso, in possesso di fonti, debba impiegare una discreta parte del tempo disponibile a correggere, porre in discussione, confutare tradizioni e narrazioni che grondano inevitabilmente di falsi, inverosimiglianze, artifici narrativi, interpolazioni e fraintendimenti. Ma la ricerca ha l’onere di confrontarsi con un orizzonte più ampio di sostanze resistenti: strati e sostrati fisici, accumuli dell’immaginario, strutture linguistiche, tradizioni sacrali, percorsi tecnologici, costumi, manualità e altro ancora. È opportuno allora che attraverso questo contatto polimorfo con le cose si manifestino nuovi propositi.

Potrebbe risultare fecondo intanto un confronto progressivo con le fenomenologie del pregiudizio che, declinato variamente, in senso etnico, culturale, religioso, politico, di genere, di ceto, di specie e altro ancora, attraversa le società umane. Riprendendo, in qualche misura, il filo intuitivo di autori come Walter Lippmann e, soprattutto, di Hannah Arendt che si concentrò sul totalitarismo e l’antisemitismo, la ricerca storica potrebbe assumersi il compito, fino ad oggi largamente eluso dalle scienze sociali, di spiegare il quando, il come e il perché il sospetto verso il differente, il distante e l’«alterità» possa tradursi in un pericoloso bisogno comune, conclamato e stratificato. Di concerto con l’antropologia, la psicologia, la sociologia e l’economia, essa potrebbe indagarne inoltre le condizioni per possibili movimenti inversi: dall’impulso a chiudersi all’esigenza di aprirsi. Si tratta di uno spunto evidentemente, lungo linee di raccordo, appunto, tra le ragioni scientifico-disciplinari, che potrebbero uscirne arricchite, e i bisogni di crescita civile. Operazioni del genere sono possibili tuttavia a determinate condizioni.

Una storia che sia a misura dei tempi è importante che si «sporchi le mani», che impari, dagli archeologi ad esempio, l’attitudine a cavare terra dal suolo, con pazienza, alla ricerca di strati più profondi di quel che già si conosce e alla scoperta di quel che non si conosce ancora e che è tuttavia ipotizzabile, immaginabile o «deducibile» attraverso lo studio di termini noti. Occorre una storia prudente ma audace, che si confronti senza remore con l’incerto, che dia quindi consistenza e conferisca un ruolo strategico al dubbio, allo stesso modo in cui l’epistemologia, con Karl Popper, ha conferito uno status scientifico al falsificabile. Nell’età in cui le scienze naturali, passate attraverso esperienze come quelle di Planck, Bohr e Heisenberg, potenziano il paradigma probabilistico, appare curiosa una ricerca storica che indugi troppo su schemi inarticolati, tassonomie perfette e linee ortogonali tracciate a tavolino. Occorre rendere disponibili e utilizzare, di preferenza, altri strumenti, a misura dei problemi. E l’oggetto storico, sfuggente già di suo, suggerisce, tanto più quando si è davanti a fenomenologie di forte indeterminazione, modelli decisamente duttili, che meglio possano aiutare a registrarne l’onda, il respiro epocale e le mobilità.

Negli attuali orizzonti, la storia ha bisogno in realtà di smarrirsi per ritrovarsi, di frequentare, a ritroso, strade impervie che diano però l’opportunità di riflettere con carichi di consapevolezze più spendibili e condivisibili, anche in termini di socialità attiva: tanto più quando è la stessa vicenda umana, con le sue problematicità, a richiedere una maggiore erogazione. La mobilità sfuggente dell’oggetto storico evoca poi una ulteriore mobilità, quella del punto di vista, che costituisce una buona risorsa per far progredire la conoscenza e arginare il pregiudizio. La mobilità dello sguardo, che fornisce all’osservatore una visione differenziata dell’oggetto, può aiutare lo storico a riconoscere meglio i territori non fisici, a proiettarsi nei contesti di mentalità lontane e a interagire perciò con razionalità differenti, che l’Occidente, ad esempio, stenta ancora oggi a riconoscere, se non sommariamente.  

Saperi e incontri 

La storia non ha bisogno di teorie che spieghino la vicenda umana nella sua totalità e come totalità, facendone il «regno dei fini». Visioni del genere restano supponenti oltre che, come rilevava Popper, ascientifiche. In realtà, se vuole mantenere una funzione ed esercitare un’influenza utile, la storia non può distaccarsi dai suoi compiti di disciplina delle complessità e delle cause. E nel Novecento, dalle prime stagioni delle Annales, questo impegno è stato esercitato appunto con slanci pionieristici. Essa ha imparato a muoversi infatti fuori dai propri confini, dove si è incrociata tra l’altro con l’antropologia, che, per quanto non priva di remore ideologiche e di aree di subalternità, sin dalla seconda metà del XIX secolo ha conferito spessore globale agli studi su alcuni campi, come quelli delle culture e dell’organizzazione sociale. Ma è importante che oggi si proceda oltre e si cerchi di ridurre lo iato che, malgrado le mediazioni già esistenti, di cui si diceva prima, persiste negli ambiti scientifici. Si potrebbe cominciare a ripensare, in particolare, le relazioni possibili e preferibili tra la razionalità dei saperi storici, in senso lato, e quella delle scienze naturali.

Se, come si è detto, i tempi attuali suggeriscono un patto plausibile tra società e storia, si potrebbe concepire, ancora utilmente, un nuovo «contratto», tra le scienze della natura e quelle sociali. Le differenze rimangono significative, poiché le prime non hanno per oggetto l’uomo storico in continua modificazione, che è invece oggetto delle scienze sociali, mentre in queste ultime non esiste tra l’osservatore e l’oggetto osservato quel distacco che, in via generale, è consueto nelle scienze naturali. Nel mondo attuale, dove gli interessi dei sistemi rischiano di sopraffare istanze e bisogni umani essenziali, un dialogo serrato e crescente tra le scienze potrebbe risultare tuttavia emblematico. Ma se la storia, come altre discipline affini, ha buone ragioni per continuare a portarsi «fuori le mura», dall’altro versante la situazione sembra più problematica. Perché le scienze naturali, concentrate sulle loro osservazioni, i lori principî e il rigore delle loro dimostrazioni, dovrebbero «scendere a patti» con le scienze sociali, e nello specifico con la disciplina storica? È un po’ il quesito di fondo, la cui risposta, nei termini di un apologo, potrebbe essere riposta, in qualche modo, nel Diogene della tradizione antica, con la sua lanterna accesa, che usava, a suo dire, per cercare l’uomo.

I saperi storici possono aiutare in realtà le scienze naturali a non perdere di vista l’uomo, appunto, ossia la dimensione del sociale, della sostenibilità, del tempo civile, che costituiscono la condizione di base per qualsiasi progetto, anche scientifico. Per gli studiosi della natura e delle discipline logico-matematiche la storia può costituire allora una utile sponda orientativa, di tipo anche morale. Si dirà che già la poesia, la prosa letteraria, la musica, il cinema, il teatro e tutte le altre arti assolvono un tale compito, ma, diversamente da tali espressioni della creatività umana, la storia condivide con le altre discipline sociali e con le scienze naturali la ricerca delle cause, un accostamento alle cose e, ancora, delle logiche di fondo che possono convergere su un coeso orizzonte di scambi e interazioni, senza pregiudizio per le diversità e l’autonomia dei saperi.

In definitiva, possono crearsi i presupposti per nuove sintonie, mentre la storia, che da un clima più aperto trarrebbe di certo dei benefici, ha buone ragioni per progredire verso nuove esperienze paradigmatiche: dubitante ma audace, dotata di un timbro proprio ma eccedente, duttile ma resistente, istruttiva e, davanti ai fattori di crisi che colpiscono questa contemporaneità, capace di sostenere da posizioni di prima fila i processi di riequilibrio culturale.


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1 novembre 2019

Federico II: medievale o «moderno»?

di Carlo Ruta 

Relazione conferenza al Castello Ursino, Catania, 11 novembre 2016


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Federico fu un imperatore medievale, come vogliono David Abulafia e, con significati del tutto diversi e perfino opposti, Franco Cardini, o fu, al contrario, il regnante che, con un anticipo di oltre due secoli, per certi versi gettò le basi dell’assolutismo illuminato, un fautore quindi della moderna concezione dello Stato, come voleva Kantorovizc, e come sembra convenire, in qualche misura, Wolfgang Stürner? Alla luce di tanti elementi, questa potrebbe essere considerata una domanda debole, ma costituisce uno dei nodi su cui si è concentrato maggiormente il dibattito in età contemporanea; vale perciò la pena di entrare nel merito dei problemi interpretativi che ne stanno a capo. Nel mio breve saggio presente in Federico II e il suo tempo (Edizioni di Storia, 2016) cerco di affrontare questo problema, ancora aperto, e lo faccio a partire da una disamina delle storiografie che si sono succedute nel ventesimo secolo, fino alle più recenti elaborazioni, appunto, di Stürner, autore di una straordinaria monografia sull’imperatore svevo, e di Franco Cardini.

L’immagine di Federico che ho cercato di definire è quella di un regnante eclettico e ambiguo, nell'accezione più complessa, negli orizzonti di un periodo, il XIII secolo, che si colloca nella cosiddetta età di mezzo e che presenta tuttavia ambiguità radicali, pur non trattandosi di un secolo di frontiera, e forti testimonianze di eclettismo culturale. Si può definire quindi l’immagine di un regnante che non appare essere espressione di un’epoca nel senso esteso del termine, del medioevo o della modernità, né di tempi precedenti al suo, ma espressione di un tragitto temporale definito: quello, appunto, del XIII secolo.

Questo secolo era ancora tempo di crociate contro l’Islam, ma anche di importanti interlocuzioni culturali, filosofiche e scientifiche tra cristianità e mondo musulmano. Era l’età d’oro dei Comuni e dei mercanti che facevano la spola tra Oriente e Occidente, che innovavano e rendevano più complesso l’ordito delle società, dei centri urbani e delle economie, ma, raccogliendo l’eredità dei due secoli precedenti, era anche la stagione in cui il contenzioso tra impero e papato, tra guelfi e ghibellini, infiammava l’Europa e sfociava in conflitti particolarmente sanguinosi. Era il secolo di Alfonso X di Castiglia, detto il Savio, che, del tutto autonomamente e da altre prospettive, si trovò a percorrere vie letterarie, interculturali e scientifiche vicine per tanti versi a quelle di Federico, con l’assunzione diretta e istituzionale di quel movimento che passa sotto il nome di scuola di traduzioni di Toledo. Era un secolo sanguinoso, in cui infuriavano in Spagna le battaglie della riconquista e in varie parti dell’Europa ardevano i roghi contro le eresie, ma era anche il tempo di Francesco d’Assisi, di Tommaso d’Aquino, dei primi grandi esperimenti linguistico-poetici in volgare illustre, dei “siciliani” e dello Stil Novo, dal quale avrebbe avuto origine il percorso lirico di Dante Alighieri.

Ecco, ritengo che Federico e le sue politiche, incluse quelle che produssero nel 1231 le Costituzioni di Melfi, vadano inquadrati in questo contesto, e che siano perciò espressione di un momento particolare, ambiguo appunto, e ricco di complessità; espressione insomma di una precisa temperie culturale, su cui ritengo che la ricerca storiografia abbia ancora tantissimo da dire. Vorrei però aggiungere qualcosa, un nuovo paragrafo direi, al mio contributo, che credo possa corroborare il ragionamento fin qui fatto. Ritengo, in particolare, che una ricognizione sui modi in cui il monarca svevo venne percepito e rappresentato nell’ultimo snodo di quella che viene detta età di mezzo e nei primi secoli della modernità possa aiutarci a definire meglio la complessità del problema interpretativo, che nelle storiografie odierne ondeggia appunto tra il Federico regnante medievale e Federico prefiguratore della moderna monarchia.

Dante Alighieri, fautore della monarchia universale, nel De Vulgari Eloquentia, prestò una certa attenzione scuola poetica e linguistica siciliana di Federico, ma nella Commedia condannò Federico all’infer-no, accusandolo di essere un miscredente, valorizzando perciò le tesi del Concilio di Lione, che aveva portato, per volere di Innocenzo IV, alla deposizione e alla fine politica dell’imperatore svevo. Federico in sostanza, amato e odiato nella sua epoca, appena mezzo secolo dopo era già percepito come un regnante da archiviare. E nei due secoli successivi, mentre cominciavano a delinearsi i caratteri della modernità, l’immagine di Federico II manteneva pressoché inalterati i suoi aspetti pregiudizievoli. Il cronista Giovanni Villani, mercante fiorentino vissuto tra il 1276 e il 1348, portatore di idee allora piuttosto avanzate, potremmo dire “borghesi”, dipingeva dell’imperatore svevo i tratti diabolici e le condotte disumane. E Leonardo Bruni nei primi due libri delle Historiae Florentini populi, composte nella prima metà del XV secolo, dava una rappresentazione ugualmente truce della personalità federiciana. L’immagine corrente era insomma quella di un regnante del passato, che non poteva costituire alcun modello per il presente. Si può ovviamente discutere su quanto fossero influenti in questa rappresentazione i radicalismi che potevano ancora permeare l’immaginario cristiano. Ma il dato rimane essenzialmente quello di una archiviazione storica, proprio al sorgere di quella modernità che secondo alcuni interpreti avrebbe dovuto costituire l’orizzonte naturale e culturale entro cui poteva essere compresa e con cui poteva essere compatibile l’azione federiciana. E in questo senso una fonte assai significativa non può che essere quella di Niccolò Machiavelli, uomo del Rinascimento, vissuto tra il XV e il XVI secolo, interprete chiave dei bisogni ideologico-politici della prima modernità.

Nella sua opera più celebre, Il Principe, il segretario fiorentino, nel tracciare il paradigma del monarca forte, in grado di governare e regnare su un paese e sui suoi sudditi oltre i dettami dell’etica e dell’au-torità religiosa, riconsiderata quest’ultima come in-strumentum regni, non fece alcun riferimento a Federico II e alle Costituzioni di Melfi, cavallo di battaglia, queste ultime, degli interpreti “modernisti” dell’Otto-Novecento. Trasse bensì dal suo tempo, dai focosi condottieri italiani che offriva l’epoca e da uno in particolare, Cesare Borgia, il decisionista duca Valentino, il modello del Principe.

Machiavelli conosceva bene la vicenda federiciana. Parlò dell’imperatore svevo, ad esempio, nelle Istorie fiorentine, per dimostrare quanto la sua condotta ostile verso il papato fosse risultata dannosa, alla fine, per la repubblica fiorentina. Egli scriveva: “E stette Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federico II, il quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le forze sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la potenza sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci: i quali con il suo favore, cacciarono i Buondelmonti, e così la nostra città ancora, come tutta Italia più tempo era divisa, in Guelfi e Ghibellini si divise”[1]. Ma a fronte di questa conoscenza, il modello monarchico incarnato da Federico è del tutto assente in un discorso paradigmatico, quello del Principe appunto, in cui, se ci poniamo ancora nelle logiche di Kantorovizc, il modello federiciano avrebbe dovuto incasellarsi in maniera naturale. Anche questo corrobora allora l’assunto di una discontinuità storica, che non sembra consentire un recupero dell’imperatore svevo in logiche che non siano quelle proprie del tempo di Federico, cioè del XIII secolo, un tempo appunto ambiguo e fortemente attraversato da eclettismi.

Federico può essere agevolmente interpretato in sostanza come espressione di una stagione che non disdegnava l’interculturalità, le relazioni culturali, lo scambio per interesse. Appare forzata invece la tesi della “fuga in avanti” di un monarca rispetto al suo tempo, che coniugava appunto oscurantismi e fervori culturali. Come osserva Cardini, Federico incarnava una tradizione lunga, universalista, che faceva capo all’elaborazione giuridica romana. Le Costituzioni di Melfi, tese a rafforzare il potere centrale, facevano espresso riferimento al Codex di Giustiniano. Ma doveva essere in primo luogo il presente, con le sue ambiguità, le sue contaminazioni e le sue interlocuzioni, ma anche con le sue radicalità, a caratterizzare in modo peculiare e per certi versi irregolare l’azione complessiva, ambigua appunto, di Federico.

La scoperta in chiave modernistica di Federico incomincia diversi secoli dopo, in epoca illuministica, soprattutto con Pietro Giannone. Nella sua Istoria civile del Regno di Napoli del 1723, mentre contesta i limiti delle tradizioni storiografiche passate, viziate dallo scontro ideologico tra guelfi e ghibellini, il pensatore napoletano parla di Federico come di un regnante che disegnò per certi versi il modello dello Stato moderno. E in questo quadro, in nome della ragion di Stato difende il monarca svevo dalle accuse che da secoli gli muovevano gli ambienti guelfi. Scriveva: "Se egli fu crudele contro alcuni prelati, e più contro frati e monaci, ben nel corso di questo libro si son vedute le cagioni di tanta severità, e le occasioni dategli d'usarla. Né deve riputarsi estraneo alla potestà del principe, quando si mova con giuste cagioni, e principalmente se lo faccia per ragion di stato, d'esiliare i vescovi, discacciargli dalle loro sedi, imprigionare i frati, ed incrudelire contro di essi, quando sono perturbatori dello stato e della publica quiete" (Op. cit., 1723, p. 144).

Giannone segnava per certi versi il momento di avvio di un rovesciamento paradigmatico che venne operato dalla storiografia di Jacob Burchkardt nel secondo Ottocento e, in maniera decisiva, da Ernst Kantorowicz, nel primo Novecento. Ma la storia del passato federiciano a quel punto, non più animata e dettata dallo spirito guelfo e da quello ghibellino, serviva soprattutto a supportare le aspirazioni e le ideologie del presente: da quelle nazionalistiche dei risorgimenti ottocenteschi all’ideologia di sacralizzazione del capo che ritroviamo già, in buona misura, nell’elaborazio-ne di Kantorowizc, andata in stampa, significativamente, nel 1928, cioè quando cominciava a tramontare in Germania la Repubblica di Weimar e si profilavano già i tempi tragici del nazismo hitleriano.

 

 



[1] (Machiavelli, Istorie fiorentine, in Niccolò Machiavelli, Opere, a cura di Ezio Raimondi, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 415).