Carlo Ruta: Federico II: medievale o «moderno»? Relazione conferenza al Castello Ursino, Catania, 11 novembre 2016.
Federico fu un imperatore medievale, come vogliono David Abulafia e, con significati del tutto diversi e perfino opposti, Franco Cardini, o fu, al contrario, il regnante che, con un anticipo di oltre due secoli, per certi versi gettò le basi dell’assolutismo illuminato, un fautore quindi della moderna concezione dello Stato, come voleva Kantorovizc, e come sembra convenire, in qualche misura, Wolfgang Stürner? Alla luce di tanti elementi, questa potrebbe essere considerata una domanda debole, ma costituisce uno dei nodi su cui si è concentrato maggiormente il dibattito in età contemporanea; vale perciò la pena di entrare nel merito dei problemi interpretativi che ne stanno a capo. Nel mio breve saggio presente in Federico II e il suo tempo (Edizioni di Storia, 2016) cerco di affrontare questo problema, ancora aperto, e lo faccio a partire da una disamina delle storiografie che si sono succedute nel ventesimo secolo, fino alle più recenti elaborazioni, appunto, di Stürner, autore di una straordinaria monografia sull’imperatore svevo, e di Franco Cardini.
L’immagine di Federico che ho cercato di definire è quella di un regnante eclettico e ambiguo, nell'accezione più complessa, negli orizzonti di un periodo, il XIII secolo, che si colloca nella cosiddetta età di mezzo e che presenta tuttavia ambiguità radicali, pur non trattandosi di un secolo di frontiera, e forti testimonianze di eclettismo culturale. Si può definire quindi l’immagine di un regnante che non appare essere espressione di un’epoca nel senso esteso del termine, del medioevo o della modernità, né di tempi precedenti al suo, ma espressione di un tragitto temporale definito: quello, appunto, del XIII secolo.
Questo secolo era ancora tempo di crociate contro l’Islam, ma anche di importanti interlocuzioni culturali, filosofiche e scientifiche tra cristianità e mondo musulmano. Era l’età d’oro dei Comuni e dei mercanti che facevano la spola tra Oriente e Occidente, che innovavano e rendevano più complesso l’ordito delle società, dei centri urbani e delle economie, ma, raccogliendo l’eredità dei due secoli precedenti, era anche la stagione in cui il contenzioso tra impero e papato, tra guelfi e ghibellini, infiammava l’Europa e sfociava in conflitti particolarmente sanguinosi. Era il secolo di Alfonso X di Castiglia, detto il Savio, che, del tutto autonomamente e da altre prospettive, si trovò a percorrere vie letterarie, interculturali e scientifiche vicine per tanti versi a quelle di Federico, con l’assunzione diretta e istituzionale di quel movimento che passa sotto il nome di scuola di traduzioni di Toledo. Era un secolo sanguinoso, in cui infuriavano in Spagna le battaglie della riconquista e in varie parti dell’Europa ardevano i roghi contro le eresie, ma era anche il tempo di Francesco d’Assisi, di Tommaso d’Aquino, dei primi grandi esperimenti linguistico-poetici in volgare illustre, dei “siciliani” e dello Stil Novo, dal quale avrebbe avuto origine il percorso lirico di Dante Alighieri.
Ecco, ritengo che Federico e le sue politiche, incluse quelle che produssero nel 1231 le Costituzioni di Melfi, vadano inquadrati in questo contesto, e che siano perciò espressione di un momento particolare, ambiguo appunto, e ricco di complessità; espressione insomma di una precisa temperie culturale, su cui ritengo che la ricerca storiografia abbia ancora tantissimo da dire. Vorrei però aggiungere qualcosa, un nuovo paragrafo direi, al mio contributo, che credo possa corroborare il ragionamento fin qui fatto. Ritengo, in particolare, che una ricognizione sui modi in cui il monarca svevo venne percepito e rappresentato nell’ultimo snodo di quella che viene detta età di mezzo e nei primi secoli della modernità possa aiutarci a definire meglio la complessità del problema interpretativo, che nelle storiografie odierne ondeggia appunto tra il Federico regnante medievale e Federico prefiguratore della moderna monarchia.
Dante Alighieri, fautore della monarchia universale, nel De Vulgari Eloquentia, prestò una certa attenzione scuola poetica e linguistica siciliana di Federico, ma nella Commedia condannò Federico all’infer-no, accusandolo di essere un miscredente, valorizzando perciò le tesi del Concilio di Lione, che aveva portato, per volere di Innocenzo IV, alla deposizione e alla fine politica dell’imperatore svevo. Federico in sostanza, amato e odiato nella sua epoca, appena mezzo secolo dopo era già percepito come un regnante da archiviare. E nei due secoli successivi, mentre cominciavano a delinearsi i caratteri della modernità, l’immagine di Federico II manteneva pressoché inalterati i suoi aspetti pregiudizievoli. Il cronista Giovanni Villani, mercante fiorentino vissuto tra il 1276 e il 1348, portatore di idee allora piuttosto avanzate, potremmo dire “borghesi”, dipingeva dell’imperatore svevo i tratti diabolici e le condotte disumane. E Leonardo Bruni nei primi due libri delle Historiae Florentini populi, composte nella prima metà del XV secolo, dava una rappresentazione ugualmente truce della personalità federiciana. L’immagine corrente era insomma quella di un regnante del passato, che non poteva costituire alcun modello per il presente. Si può ovviamente discutere su quanto fossero influenti in questa rappresentazione i radicalismi che potevano ancora permeare l’immaginario cristiano. Ma il dato rimane essenzialmente quello di una archiviazione storica, proprio al sorgere di quella modernità che secondo alcuni interpreti avrebbe dovuto costituire l’orizzonte naturale e culturale entro cui poteva essere compresa e con cui poteva essere compatibile l’azione federiciana. E in questo senso una fonte assai significativa non può che essere quella di Niccolò Machiavelli, uomo del Rinascimento, vissuto tra il XV e il XVI secolo, interprete chiave dei bisogni ideologico-politici della prima modernità.
Nella sua opera più celebre, Il Principe, il segretario fiorentino, nel tracciare il paradigma del monarca forte, in grado di governare e regnare su un paese e sui suoi sudditi oltre i dettami dell’etica e dell’au-torità religiosa, riconsiderata quest’ultima come in-strumentum regni, non fece alcun riferimento a Federico II e alle Costituzioni di Melfi, cavallo di battaglia, queste ultime, degli interpreti “modernisti” dell’Otto-Novecento. Trasse bensì dal suo tempo, dai focosi condottieri italiani che offriva l’epoca e da uno in particolare, Cesare Borgia, il decisionista duca Valentino, il modello del Principe.
Machiavelli conosceva bene la vicenda federiciana. Parlò dell’imperatore svevo, ad esempio, nelle Istorie fiorentine, per dimostrare quanto la sua condotta ostile verso il papato fosse risultata dannosa, alla fine, per la repubblica fiorentina. Egli scriveva: “E stette Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federico II, il quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le forze sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la potenza sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci: i quali con il suo favore, cacciarono i Buondelmonti, e così la nostra città ancora, come tutta Italia più tempo era divisa, in Guelfi e Ghibellini si divise”[1]. Ma a fronte di questa conoscenza, il modello monarchico incarnato da Federico è del tutto assente in un discorso paradigmatico, quello del Principe appunto, in cui, se ci poniamo ancora nelle logiche di Kantorovizc, il modello federiciano avrebbe dovuto incasellarsi in maniera naturale. Anche questo corrobora allora l’assunto di una discontinuità storica, che non sembra consentire un recupero dell’imperatore svevo in logiche che non siano quelle proprie del tempo di Federico, cioè del XIII secolo, un tempo appunto ambiguo e fortemente attraversato da eclettismi.
Federico può essere agevolmente interpretato in sostanza come espressione di una stagione che non disdegnava l’interculturalità, le relazioni culturali, lo scambio per interesse. Appare forzata invece la tesi della “fuga in avanti” di un monarca rispetto al suo tempo, che coniugava appunto oscurantismi e fervori culturali. Come osserva Cardini, Federico incarnava una tradizione lunga, universalista, che faceva capo all’elaborazione giuridica romana. Le Costituzioni di Melfi, tese a rafforzare il potere centrale, facevano espresso riferimento al Codex di Giustiniano. Ma doveva essere in primo luogo il presente, con le sue ambiguità, le sue contaminazioni e le sue interlocuzioni, ma anche con le sue radicalità, a caratterizzare in modo peculiare e per certi versi irregolare l’azione complessiva, ambigua appunto, di Federico.
La scoperta in chiave modernistica di Federico incomincia diversi secoli dopo, in epoca illuministica, soprattutto con Pietro Giannone. Nella sua Istoria civile del Regno di Napoli del 1723, mentre contesta i limiti delle tradizioni storiografiche passate, viziate dallo scontro ideologico tra guelfi e ghibellini, il pensatore napoletano parla di Federico come di un regnante che disegnò per certi versi il modello dello Stato moderno. E in questo quadro, in nome della ragion di Stato difende il monarca svevo dalle accuse che da secoli gli muovevano gli ambienti guelfi. Scriveva: "Se egli fu crudele contro alcuni prelati, e più contro frati e monaci, ben nel corso di questo libro si son vedute le cagioni di tanta severità, e le occasioni dategli d'usarla. Né deve riputarsi estraneo alla potestà del principe, quando si mova con giuste cagioni, e principalmente se lo faccia per ragion di stato, d'esiliare i vescovi, discacciargli dalle loro sedi, imprigionare i frati, ed incrudelire contro di essi, quando sono perturbatori dello stato e della publica quiete" (Op. cit., 1723, p. 144).
Giannone segnava per certi versi il momento di avvio di un rovesciamento paradigmatico che venne operato dalla storiografia di Jacob Burchkardt nel secondo Ottocento e, in maniera decisiva, da Ernst Kantorowicz, nel primo Novecento. Ma la storia del passato federiciano a quel punto, non più animata e dettata dallo spirito guelfo e da quello ghibellino, serviva soprattutto a supportare le aspirazioni e le ideologie del presente: da quelle nazionalistiche dei risorgimenti ottocenteschi all’ideologia di sacralizzazione del capo che ritroviamo già, in buona misura, nell’elaborazio-ne di Kantorowizc, andata in stampa, significativamente, nel 1928, cioè quando cominciava a tramontare in Germania la Repubblica di Weimar e si profilavano già i tempi tragici del nazismo hitleriano.
[1] (Machiavelli, Istorie fiorentine, in Niccolò Machiavelli, Opere, a cura di Ezio Raimondi, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 415).